Manipolazione miofasciale

Clave di Krause, corpuscoli del Golgi, fusi neuromuscolari: di quante stranezze ama circondarsi la nomenclatura dell’anatomia!
 
Non siamo certo interessati, in questo nostro contesto, a conoscere i dettagli strutturali di queste particelle, distribuite qua e là all’interno di muscoli tendini legamenti: ci basta sapere che esistono, e cercare d’intuirne la funzione. In particolare, ci soffermeremo sui recettori nervosi presenti nelle aree inserzionali dei tendini, quei punti cioè dove il robusto cordone fibroso s’innesta sulla superficie ossea garantendo la continuità fra l’osso e il muscolo (di cui il tendine è diretta estensione).
 
Ce n’è una miriade, di queste microscopiche sentinelle, tutte pronte a registrare il carico di lavoro per trasmetterne immediatamente l’informazione al cervelletto (e non solo a lui: per semplicità mi riferisco a questa parte dell’encefalo perché è la più nota anche al grande pubblico; ma, diciamolo in piena onestà, anche perché non essendo io un neurofisiologo NON HO tutte le nozioni che servirebbero per spiegare compiutamente il processo, e NON HO nessuna voglia di studiarmele perché non sono rilevanti per la mia attività, didattica o terapeutica che sia!).
 
E si può ben capire la loro funzione: se la sollecitazione meccanica è troppo lassa, lo stiramento indotto sul recettore (come se il muscolo si fosse lasciato andare) comporta una risposta riflessa di contrazione, mediata dai centri encefalici, per riadattare il gioco tensionale e garantire in questo modo che l’individuo, nel suo insieme, mantenga l’equilibrio e si sappia spostare con l’eleganza dinamica che caratterizza il movimento dei vertebrati; il tutto in un affascinante “tempo reale”, cioè in una manciata di millisecondi, gli stessi che un praticante di arti marziali sfrutta istantaneamente per attivare il suo sistema di difesa e parare un colpo.
La risposta fulminea ha ottenuto un risultato importante. L’aspetto che interessa noi, però, riguarda la sollecitazione prolungata e costante, che ha come ricaduta un effetto terapeutico perché il recettore esaurisce rapidamente il suo potenziale allarmistico. Il risultato è l’opposto: il cervelletto disattiva il segnale di sollecitazione ai muscoli e concede loro di rilasciarsi, PROPRIO attraverso le tardive informazioni di quello stesso sensore nervoso. Fantastico: se Dio esiste, alcuni milioni di anni fa dev’essersi divertito un sacco a programmare queste meraviglie!
 
Veniamo a noi, poveri acciaccati del terzo millennio. Sfruttando questo piccolo prodigio miniaturizzato della natura il nostro terapeuta, conoscitore della manipolazione miofasciale, può dare un immediato sollievo a quel tremendo torcicollo (galeotta fu l’idea di tenere il finestrino aperto), a quella lombaggine paralizzante (ma perché mi sono chinato in avanti, razza di idiota, mentre reggevo quella cassa così pesante?), a quel dolore crampiforme al braccio (mai più due ore consecutive di tennis, giuro!), a quel cronico mancamento di fiato (è una vita che sto curvo su me stesso, come minimo i polmoni si stufano di faticare così tanto per espandersi), a quel logorante dolore all’anca che prima o poi mi porterà sotto i ferri (se forzo in maniera sbilanciata sul bacino, lui dopo un po’ di anni mi presenta il conto).
 
Certo, un semplice massaggio di impastamento delle spalle richiede meno conoscenza tecnica e offre, per esempio al povero studente incollato alla tastiera, un certo qual sollievo casalingo; ma il miofasciale, a saperlo fare, dà molto di più.
 
Sono così passato a chiamare la tecnica con un nome maschile, e limitandomi all’aggettivo che finisce per avere valenza di sostantivo: non è così importante, basta capirsi e ringraziare la nostra ricchissima lingua che ci permette infinite variazioni eleganti.
Ma torniamo ancora una volta all’etimologia, tanto per capire bene di cosa stiamo parlando. “Mio” è di derivazione greca ed ha a che vedere con “muscolo”, mentre “fasciale” è latino e identifica, nella fattispecie, un gruppo di muscoli aventi ciascuno la propria individualità anatomica ma, tutti insieme, una funzione complessa e coordinata: per l’appunto una “fascia muscolare”, dove ogni singolo elemento è in continuo dialogo con tutti gli altri.
Si spiega in questo modo la possibilità di ottenere un risultato importante sul torcicollo lavorando, magari, solamente sulla regione lombare, perché le due aree appartengono a un’unica fascia che si estende perlomeno dalla nuca fino all’osso sacro.
 
La tecnica consiste nel premere, con gradualità e costanza, i polpastrelli su una superficie ristretta della zona d’inserzione tendinea, per un tempo non inferiore a dieci secondi: in questo  modo si disattiva il primario segnale di allarme, e si permette l’emergere della risposta tardiva decontratturante.
In genere il trattamento parte dal bacino, anche se il problema è a grande distanza, perché alla fine tutti i carichi di lavoro muscolare convergono su quello, proprio come le linee di forza architettonica in un edificio convergono sulle fondamenta. In casi particolarmente fortunati pochi passaggi lungo la cresta iliaca sono già sufficienti a dissolvere un mal di testa che durava da giorni.
C’è anche, peraltro come in tutti gli approcci corporei, la possibilità d’intervenire favorevolmente sul disagio emotivo, che (ormai lo sappiamo bene) è sempre sostenuto da una componente muscolare.
In queste circostanze io sono solito attuare un dolce inganno: la persona arriva in preda a un più o meno forte stato di ansia e vomita sulla mia persona, sorta di gabinetto virtuale, una ridda di pensieri molto spesso disordinati per non dire caotici. Io ascolto con attenzione, anche quando il tema è palesemente futile e si smonterà da solo in pochi altri minuti, perché il paziente ha bisogno anche di quello.
E intanto, magari più a cenni del capo e delle mani che a parole (perché è molto difficile intromettersi nel vomito liberatorio e trasmettere un messaggio verbale), lo guido con dolcezza verso il lettino e inizio a manipolare partendo dal già citato basamento della nostra tensostruttura umana, l’area del bacino. Il discorso (cioè il monologo del paziente) prosegue per un po’, e a un certo punto si smorza per poi quasi spegnersi del tutto: l’allentamento muscolare ha permesso al cervello di disattivare un’infinità di circuiti neuronali che si autoalimentavano, e la persona ne esce rinfrescata, molto spesso chiedendomi: “Non so come sia possibile, ma sto meglio di prima”!
E’ mia cura, a quel punto , far notare che il cambiamento è avvenuto grazie al corpo. Non si tratta soltanto di smitizzare il mio lavoro, che non ha ovviamente nulla di magico, ma sopratutto di indirizzare il soggetto verso la consapevolezza di sé; e il risultato si ottiene più facilmente quando si è reduci da un cambiamento importante, che aiuta la percezione.
 
La manipolazione si effettua, come già accennato, sui punti di aderenza fra le fibre tendinee e la corrispondente superficie ossea: per esempio immediatamente a ridosso della colonna vertebrale, lungo tutto il suo percorso o su un tragitto limitato a seconda della patologia e del risultato che si vuole ottenere, al disopra e al disotto della spina scapolare, cioè dell’osso disposto quasi orizzontalmente nella parte alta della schiena, al disopra e al disotto della clavicola…
 
Al contrario di altri metodi, il miofasciale non prevede dolore. La sollecitazione può essere anche importante, e indurre un certo grado di fastidio pressorio, ma non si arriva mai al livello di dolore vero e proprio anche per non innescare una reazione muscolare difensiva che potrebbe vanificare o perlomeno ridurre l’efficacia del trattamento.
Perché, allora, non uso sempre questa modalità? Per dare sfogo al mio sadismo, come alcuni pazienti dicono a metà fra il serio e il faceto?
Beh, ogni tecnica ha le sue peculiarità: a questa va il merito di produrre un importante effetto decontratturante, dimostrandosi nell’occasione più efficace del connettivale. Ma non esplica, come quest’ultimo, una regolazione neurovegetativa e non ha una particolare capacità drenante; né può disattivare il messaggio disturbante delle fibrosi sottocutanee, che solo il Furter riesce a intaccare.
Certo, di tanto in tanto riesco anche a non fare del male, quando la situazione mi permette di utilizzare il miofasciale; e ne sono più che contento, ma so che il mio strumento ha un effetto limitato soltanto a specifiche condizioni muscolari.

Per saperne di più

Il testo di questa pagina
è tratto da “La malattia ha le sue buone ragioni, ma le si può far cambiare idea”.
Un tuffo negl’inciuci che l’organismo intesse per sopravvivere e stare il meglio possibile.
Un viaggio un po’ disorientante (e nel contempo rassicurante) nei meandri del funzionamento umano, fisico e psichico.

AUTORE
Mario Frusi

SPECIFICHE TECNICHE
267 pagine
Formato 21 x 15

EDITORE
Edizioni Tecniche – Graphedit

CODICE ISBN
978-88-905430-6-7

Link al sito dell’editore